l’isola che non c’è

La piazza

Una mostra fotografica, L’isola che non c’è.

Le immagini de L’isola che non c’è raccolgono la costruzione del mio sguardo a Trieste, nell’arco del mio viaggio di lenta scoperta di questa città di confine, sostanzialmente ignorata e misconosciuta dall’Italia continentale, dal regno, così come ancora qualcuno chiama la penisola, di là dal mare. Trieste, al mio personale sguardo, è un isola, un isola che non c’è:
Non c’è geograficamente, non c’è nella consapevolezza delle persone che la vivono, non c’è nella assenza di consapevolezza delle persone che ne hanno semplicemente sentito parlare. Quest’isola è delimitata dal mare guardando a Ovest, delimitata dal Carso Sloveno a Nord e ad Est, dal litorale Sloveno a Sud. C’è un “ponte”di accesso di 20 km tra il mare e il carso, dove i telefoni prendono quasi solo la rete slovena, in direzione Nord-Nord/Ovest, dove corre anche l’unica linea ferroviaria: la litoranea che porta a Duino e poi a Monfalcone, dove inizia, finalmente la Penisola Italiana. L’entroterra ampio che circonda Trieste, ed arriva idealmente fino alle grandi pianure dell’est Europa passando per Ljubljana, è “altra” terra, lo si percorre solo in auto – se lo si deve percorrere – con un disagio che porta in sé la privazione. Una privazione che è di chi ci è nato e non ci vive più, o di chi aveva creduto per secoli fosse anche terra sua. L’apertura dei confini tra Italia e Slovenia non si è ancora del tutto compiuta emotivamente, nei corpi delle persone, le genti mischiano al terriccio delle loro scarpe le zolle di terra straniera ancora con difficoltà, le colline bellissime alle spalle della città, se in terra già Slovena, sono solo attraversate, da chi va a fare escursioni sul monte Nanos o a rifocillarsi alle terme di Ankaran o Portorož.

La Trieste multietnica – con le indicazioni stradali esclusivamente in italiano – abitata da gente parlante italiano, sloveno, croato, serbo, greco e poi l’inglese e le altre mille lingue degli scienziati dei molti centri di ricerca, si basta a se stessa: la mia impressione, certamente parziale, imperfetta, è che si comporta come un isola che non c’è, con la gente che accoglie i viaggiatori piena di curiosità e timore, con la gente che vorrebbe attraversare il “mare” ampio che la circonda per vedere il mondo laggiù, con desiderio e difficoltà.
Andrea Pandolfo

L’isola che non c’è  è Trieste, dove Andrea Pandolfo vive da qualche anno.
La città è esplorata al suo interno e nei suoi margini, fin oltre i confini di stato, strappata al silenzio da uno sguardo che ha l’intenzione consapevole di estenderne i limiti.
Le immagini come partiture musicali. Spazi vuoti, sospensioni, tensioni tra le parti tradotte in suono. Se la propagazione dell’onda sonora nello spazio ne delinea la dimensione, la forma e la consistenza, qui l’artista restituisce al suono stesso una dimensione concreta e agli elementi spaziali una dimensione astratta. Con L’isola che non c’è, Pandolfo ci accompagna in un’esperienza estetica che valorizza le componenti sinestetiche della relazione tra opera e fruitore; sono scatti da ascoltare.”
Rosa Martino

 

La lanterna, guardando ad Ovest

 

 

Comments are closed.